Edvard Grieg ha lasciato un’impronta profonda nella diffusione della musica popolare norvegese, nonostante la sua formazione rigorosa al Conservatorio di Lipsia. Non dobbiamo cercare i suoi momenti più luminosi nelle grandi opere ambiziose, ma nelle composizioni più intime, dove la sua arte emerge in modo sottile, quasi in punta di piedi. La Suite Holberg, una delle sue opere che più amo, rappresenta perfettamente questa delicatezza. È come se, con poche note, riuscisse a riportare in vita le atmosfere del Settecento, celebrando le danze e le forme antiche con una freschezza tutta sua. Ludvig Holberg, nato nel 1684 e morto nel 1754, è spesso ricordato come il “Molière del Nord” per il suo contributo decisivo allo sviluppo del teatro comico e satirico in Scandinavia. Holberg, come Molière in Francia, utilizzava la commedia per esporre e criticare le debolezze umane e sociali. Il Preludium è il primo movimento della suite è un inizio energico e pieno di vitalità. Come un invito al ballo, carico di luce e energia. Il tempo veloce e i ritmi puntati conferiscono un senso di movimento continuo, come se la musica scorresse libera. Ogni passaggio sembra parlarmi di leggerezza, di vitalità, ma anche di un certo senso di nostalgia per un tempo che non c’è più, evocando il fascino di un’epoca antica e idealizzata, che appare vivida e tangibile solo per il breve istante di questa musica. Immagino non solo una “sala da ballo”, ma una scena più intima: un mattino luminoso in cui tutto sembra possibile, in cui il peso del passato si scioglie nel presente, e l’istante si espande come una risata di pura gioia. Subito dopo, però, si entra in una dimensione più intima con la Sarabanda. Mi sono sempre sentito particolarmente vicino a questo movimento: lento, solenne, eppure profondamente umano. Ogni nota sembra svelare qualcosa di nascosto, una malinconia sottile, ma allo stesso tempo rassicurante. Ho sempre cercato di interpretarla con un tocco delicato, come se stessi raccontando una storia segreta. La Gavotta, terzo movimento della Holberg Suite, ha una leggerezza quasi giocosa. È una danza di corte, elegante ma non formale, con un passo sicuro e ritmico. I suoi tratti distintivi sono i fraseggi corti, i ritmi puntati e le risposte delicate degli archi, che sembrano dialogare tra loro con una naturalezza disarmante. C’è una grazia che scivola via leggera, come se ogni frase fosse accompagnata da un sorriso e un inchino gentile. L’intero movimento sembra danzare in punta di piedi, portando con sé un senso di spontaneità che è al contempo raffinato e gioioso. Ma la vera sorpresa è la Musette che segue: un trio dal sapore pastorale che porta con sé una ventata d’aria fresca. Qui, Grieg ci offre una scena diversa, più intima e pacata, come se dopo la vivacità della Gavotta, la musica decidesse di fare una pausa per respirare a pieni polmoni l’aria pura della campagna. La semplicità della Musette, con il suo bordone continuo che ricorda il suono di una zampogna, crea un’atmosfera serena e rustica. È un momento di pace, in cui il tempo sembra rallentare.
L’Aria, il cuore pulsante della suite, il momento in cui ogni nota sembra respirare. Questo movimento mi colpisce sempre per la sua profondità emotiva: è come se Grieg avesse voluto distillare l’essenza di Bach, rivisitandola però con il suo linguaggio unico e intimo. Eseguendolo, percepisco un dialogo sottile tra il tema iniziale e l’accompagnamento, intriso di malinconia e la maestosità che cresce lentamente.
Nel Rigaudon, ultimo movimento della Holberg Suite di Grieg, (una danza popolare originaria della Francia) assistiamo a un dialogo spensierato e vivace tra violino e viola, che trascende la semplice alternanza musicale e diventa quasi una conversazione tra due anime. Il violino prende inizialmente il ruolo di voce guida, aprendo il tema con frasi energiche e ritmiche, quasi come se stesse raccontando una storia. La viola, invece, risponde con un timbro più caldo e avvolgente, come una voce che media e modera, portando sfumature più intime e delicate. È come se il violino parlasse con entusiasmo e un po’ di impetuosità, mentre la viola lo assecondasse, a tratti lo completasse, a tratti lo sfidasse con toni più sommessi. Questa “conversazione” si sviluppa in un gioco di imitazioni, di domande e risposte, in cui i due strumenti non cercano di sopraffarsi, ma si ascoltano e si armonizzano l’un l’altro. La bellezza sta proprio in questo dialogo autentico, in cui il violino e la viola non sono soltanto strumenti, ma voci di due anime che comunicano, si rincorrono, si raccontano a vicenda in un’intimità che va oltre le parole. Forse è questo a emozionarti: la sensazione che, dietro a ogni nota, ci siano emozioni vere, palpabili, come se Grieg ci permettesse di spiare per un attimo i pensieri e i sentimenti di queste due anime in musica. Grieg stesso, in una lettera, parlò con affetto di questa suite e della trascrizione per archi che completò con grande soddisfazione. Posso solo immaginare il sorriso sul suo volto mentre “sentiva” il risultato finale, forse perché, come lui, anche io sento che questa musica ha una vita propria.
L’Ouverture inizia con strappate secche, violente e perentorie che incarnano la lacerazione interna di Coriolano. Ho chiesto all’orchestra, paradossalmente, di dare maggiore attenzione al silenzio e alle pause piuttosto che ai suoni stessi, lasciando che questi momenti di vuoto diventino il respiro del dramma, capace di esprimere più profondamente il conflitto interiore del protagonista rispetto alla forza di qualsiasi nota suonata, creando così un’interpretazione in cui il non detto diventa la voce più potente della partitura.
Nei momenti più intimi, dedicati alla figura materna e alla moglie, il carattere musicale si trasforma: i primi e secondi violini conducono un diminuendo che diventa un dialogo sommesso, quasi un sussurro.
Il ruolo del direttore d’orchestra è proprio quello di “dire”, ovvero dare significato a ogni singola nota con intenzione e precisione.
Beethoven delinea il concetto di maternità e tenerezza in contrasto con la durezza di Coriolano, portandoci al momento finale: le ultime strappate, che segnano il ripiegamento disperato dell’eroe, dilaniato tra l’amore per la madre e la moglie e la volontà dei Volsci di attaccare Roma. Gli ultimi tre pizzicati che, per me, evocano il suo gesto estremo, quasi a simboleggiare il momento in cui Coriolano rivolge la lama contro se stesso.
Beethoven, proprio come Michelangelo che scolpisce la pietra togliendo il superfluo, plasma questa tragica figura attraverso partiture tormentate, colme di ripensamenti e correzioni, limando ogni dettaglio fino a ottenere un’essenzialità sonora che disvela l’anima profonda di Coriolano, trasformando la complessità delle sue emozioni in una struttura musicale che è al contempo nuda, vibrante e intrisa di drammaticità.
La Sinfonia n. 4 di Mendelssohn, Op. 90, conosciuta come ‘Italiana’, prende il suo nome dal viaggio che il compositore fece in Italia tra il 1831 e il 1832. Durante quel periodo, Mendelssohn visitò città iconiche come Venezia, Roma, Napoli e Firenze, rimanendo profondamente colpito dalla cultura e dai paesaggi italiani. Ho provato una forte emozione nel poter contribuire alla grandezza della musica di Mendelssohn, e allo stesso tempo sento di aver dato un contributo a me stesso come interprete. Nell’affrontare il quarto movimento, il mio obiettivo è stato quello di dare risalto al ritmo incessante. È in questo contesto che, attraverso l’uso delle dinamiche, ho cercato di giocare con la struttura della composizione. Questa struttura, sebbene complessa, ha una semplicità simile a quella di Bach. E qui sta la forza di Mendelssohn: la capacità di scrivere con la purezza di Bach, ma con una voce propria e moderna.
A vent’anni, Felix Mendelssohn lasciò Berlino pronto a consolidare la sua fama ben oltre i confini della sua città natale. Si concesse una pausa, un viaggio in Scozia, e all’inizio di agosto giunse alle Isole Ebridi. È su una di queste, l’isola di Staffa, che ebbe modo di visitare la celebre Grotta di Fingal.
Quel paesaggio, quasi fiabesco, con i suoi colori riflessi e surreali, lo colpì profondamente. L’impressione fu così forte che Mendelssohn stesso scrisse: “Per farvi comprendere come mi sono sentito alle Ebridi, vi mando questo…”. Quella sensazione si cristallizzò nella prima versione della sua Ouverture “Le Ebridi”, completata oltre un anno dopo, nel settembre del 1830. Il suo amico Moscheles la trovò talmente mirabile da non meritare alcuna modifica. Eppure, Mendelssohn ci lavorò ancora, e la versione definitiva vide la luce quasi due anni dopo, presentata a Londra nel maggio del 1832, dove venne accolta con enorme entusiasmo.
Questo è un poema sinfonico, come quelle di Vivaldi, Wagner o Strauss: una sorta di “colonna sonora” che accompagna non eventi specifici, ma immagini, emozioni, visioni. In questa composizione, io sento il mare. E queste sensazioni, io le comunico all’orchestra. È attraverso l’orchestra che traduco il moto delle onde e il respiro del mare.
Ogni strumento trova la sua precisa collocazione, ogni melodia cantabile emerge esattamente nel momento giusto.
In questa composizione, io divento il mare, e l’orchestra si trasforma nella sua voce, nell’infinito susseguirsi di movimenti che solo la musica può restituire con tale precisione e bellezza.
l Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 di Ludwig van Beethoven fu composto nel 1800, ma probabilmente abbozzato già nel 1797. Questa straordinaria opera si sviluppa in tre movimenti: Allegro con brio, Largo e Rondò: Allegro, e rappresenta una delle pietre miliari del repertorio pianistico e orchestrale. L’interpretazione di questo concerto, specialmente grazie alla collaborazione con Cristiano Burato, ha richiesto un lavoro accurato e approfondito. Abbiamo curato ogni dettaglio, concentrandoci sul colore e sulla dinamica, elementi che riflettono pienamente lo spirito e l’intensione di Beethoven. Il nostro obiettivo è stato quello di evitare discrepanze tra la direzione orchestrale e il solista, cercando un’armonia perfetta che va oltre la semplice esecuzione. Nel primo movimento, Cristiano Burato ha eseguito la complessa cadenza di Ferdinand Ries, un passaggio reso ancora più impegnativo dagli interventi di carattere classico.Figlio di Anton Ries maestro di Beethoven, Ferdinand Ries ha elaborato una cadenza che richiede grande virtuosismo, rappresentando una sfida non solo tecnica, ma anche interpretativa per il pianoforte. Il secondo movimento, un Largo cantabile, è un momento di grande liricità, dove il pianoforte sembra cantare, portando l’ascoltatore in una dimensione intima e profonda. Questo cantabile, una mia personale interpretazione, collega idealmente il terzo movimento, il Rondò, che si ripete in forma ciclica, come un ritornello che riporta ogni volta alla freschezza del tema iniziale. Con Cristiano Burato abbiamo affrontato l’intero processo interpretativo con una cura quasi maniacale, analizzando ogni sfumatura e lavorando in perfetta sinergia per portare alla luce la vera essenza di questo capolavoro beethoveniano.
La Sinfonia n. 7 Op. 92 di Beethoven è un’opera grandiosa, che si distingue per la sua energia e per la sua profondità emotiva. E’ stata composta tra il 1811 e il 1812. Il primo movimento si apre in La maggiore, con un’introduzione maestosa che sfocia poi nel caratteristico moto terzinato. Questo moto terzinato è un vertice nella produzione di Beethoven: l’energia sprigionata è travolgente, una delle manifestazioni più alte della sua genialità. Nel secondo movimento della Sinfonia n. 7 di Beethoven assistiamo a un cambiamento radicale di atmosfera. L’inizio, in La minore, è carico di malinconia e di una tristezza quasi solenne, che per me evoca la sensazione di un “respiro nella tormenta”. È un momento di profonda riflessione, in cui si avverte un senso di oscurità e inquietudine.Tuttavia, questa cupezza non rimane tale: Beethoven, con la sua straordinaria capacità di trasformare il sentimento, conduce gradualmente l’ascoltatore verso una luce. L’apertura verso il La maggiore porta con sé un senso di purezza e innocenza, quasi un ritorno a un’ingenuità perduta. È un passaggio emotivo potentissimo, dove il respiro affannoso della tempesta si dissolve in un momento di serenità e pace ritrovata. Questa transizione dal dolore alla speranza, dalla tensione alla distensione, è uno degli aspetti più affascinanti e toccanti del movimento, e rappresenta al meglio la maestria di Beethoven nel creare paesaggi emotivi ricchi e profondi. Il terzo movimento è una dimensione completamente diversa. Per me è ‘spaziale’, non nel senso di uno spazio fisico, ma piuttosto per la sensazione di vastità e leggerezza che riesce a creare. Beethoven porta l’ascoltatore in un’altra sfera, dove la musica sembra fluttuare, sospesa in un mondo quasi metafisico. Infine, il quarto movimento chiude la sinfonia con una festa gioiosa. C’è un senso di celebrazione che permea ogni battuta, ma non è mai una festa superficiale. Oserei dire che ha tratti romantici, con una grandezza che si espande come in uno spazio illimitato. Beethoven riesce a creare un’atmosfera festosa, ma sempre con un senso di solennità e maestosità. È un finale che lascia senza fiato, un’esultanza che sembra abbracciare l’intero universo.
Riccardo, governatore di Boston, è segretamente innamorato di Amelia, moglie del suo amico Renato. Tra congiure e profezie, Riccardo e Amelia si incontrano, ma vengono scoperti. Renato, tradito, si unisce ai cospiratori. Durante un ballo mascherato, Renato uccide Riccardo, che, morente, perdona tutti e rivela l’innocenza di Amelia.
Ecco l’orrido campo, romanza di Amelia (atto II). Nella visione drammatica di Verdi, emerge con forza la voce del soprano Stefania Rinaldi, una voce sfaccettata, complessa, che io guido dando una direzione precisa e intensa, in grado di amplificare il dramma. La scena del “Orrido campo” è ricca di contrasti: la conseguenzialità tra delitto e morte si rivela attraverso una scrittura complessa, offrendo una ricchezza di dettagli e pieghe espressive. Il rintocco della campana, così cupo e sinistro, richiama in parte le atmosfere di Rigoletto, evocando un passato denso di tensione emotiva. La scena si apre con un tumulto interiore che non esplode esteriormente, ma si evolve verso una calma apparente. È in questa visione che vedo il ruolo della direzione d’orchestra: imprimere su ogni segno musicale una forza psicologica unica, in grado di dar vita a un mondo emotivo profondo e composito. Non si tratta solo di un gesto meccanico sulla partitura, ma di un atto interpretativo carico di significato, capace di rendere ogni nota parte integrante del dramma.